Vivere a corto raggio. Quale rapporto tra mente e destini del pianeta?

 

Se il modello avido-consumistico produce un tipo umano centrato su un presente infinitamente dilatato e mai autosufficiente, mai soddisfatto di sé, quali conseguenze sono intravedibili all’orizzonte, di contro, specie se gli scienziati ci annunciano plumbei ed insostenibili futuri per il nostro pianeta? Come può questo tipo umano affrontare le sfide, ardue, che il futuro ci presenta? E soprattutto come si modificano i nostri più comuni atteggiamenti a fronte di una riprogrammazione così pervasiva e profonda dei nostri stili di vita?

Sospetto fortemente dei toni catastrofisti, è un modo per mobilitare le angosce, non i pensieri utili al cambiamento. E già in politica si fa a gara a mobilitare i peggiori sentimenti umani, disgusto, indignazione, rabbia, paura, direi che abbiamo già dato e direi che i fatti ci dicono che non è questa la strada per cambiare alcunché.

Esiste però una forma, diciamo così, illuminata di catastrofismo.

La Terra ci è data in prestito dai nostri figli” recita un detto amerindo, citato dal filosofo Jean-Pierre Dupuy in un suo – tragicamente attuale – pamphlet di qualche anno fa che ha come titolo “Piccola metafisica degli tsunami. Male e responsabilità nelle catastrofi del nostro tempo”. Abbiamo in usufrutto questo ecosistema dal nostro futuro. Ma il futuro non può rendersi così reale e vincolante per i contemporanei, ammonisce Dupuy il quale, cita un passo di Günther Anders a proposito di Noè e dell’incipiente diluvio universale. Lo riassumo.

Nessuno riusciva a prenderlo sul serio Noè, che da tempo annunciava una catastrofe che non avveniva mai, e allora cospargendosi il capo di cenere come per piangere i propri morti: “ben presto ebbe radunato intorno a sé una folla curiosa e le domande cominciarono ad affiorare. Gli venne chiesto se qualcuno era morto e chi era morto. Noè rispose che erano morti in molti e, con gran divertimento di quanti lo ascoltavano, che quei morti erano loro. Quando gli fu chiesto quando si era verificata la catastrofe, egli rispose: domani. Approfittando quindi dell’attenzione e dello sgomento, Noè si erse in tutta la sua altezza e prese a parlare: dopodomani il diluvio sarà una cosa che sarà stata. E quando il diluvio sarà stato, tutto quello che è non sarà mai esistito […], se sono venuto davanti a voi, è per invertire i tempi, è per piangere oggi i morti di domani”.

La frase “dopodomani il diluvio sarà una cosa che sarà stata” la trovo di una fulgida bellezza e di un potenziale trasformativo notevole.

Cosa distingue un portatore di sventura da un “catastrofista illuminato” (così ama definirsi Dupuy)? Tutto. Il portatore di sventura si auto-profetizza la sfortuna e così facendo vi si predispone. Il catastrofista illuminato fa una valutazione realistica e radicalmente attuale (per come possiamo renderci attuale e reale il futuro) dei pericoli di distruzione che lo circondano e, aggiungo, che lo riguardano in prima persona fin dentro i propri comportamenti spiccioli (fumare, ad esempio), cioè tiene conto dell’”aspetto sistemico del male”, e prova a salvarsene. “Il catastrofismo illuminato è un’astuzia che consiste nel dividere l’umanità dalla sua violenza, facendo di quest’ultima un destino, senza intenzione, ma in grado di annientarci”.

La frase che si sente ripetere più spesso in questo momento nei dibattiti televisivi e nella maggior parte delle analisi sul tema della sicurezza o meno degli impianti nucleari è più o meno questa: “non facciamoci prendere dall’emotività di questo momento per decidere o meno sul nucleare nel nostro paese”. Quale essenza di saggezza e razionalità si scorge in questa retorica anticatastrofista. Certo, confermerebbe uno psicologo, le decisioni sull’onda emotiva non sempre sono le migliori, analizziamo freddamente le probabilità e gli inciampi della nostra istintiva irrazionalità. Dupuy definirebbe questa posizione psychologically correct senz’altro come una “derealizzazione del futuro” di stampo metafisico, di una metafisica razionale, però.

Proviamo perciò a cogliere l’aspetto sistemico del male che ci circonda, assieme a tutte le tecnologie della distruzione in generale che da Auschwitz e Hiroshima in poi contraddistinguono la nostra epoca, e non si fa fregare dalla retorica derealizzante di una certa razionalità politica. In fondo, ci avverte Dupuy: “la corsa sconsiderata verso l’abisso ha la tipica forma dell’autotrascendenza”.

D’altro canto se non vogliamo fare la fine della leggendaria rana che nuota nella pentola prima tiepida e poi bollente, dobbiamo per forza inerpicarci fino al bordo del pentolone e provare a guardare cosa c’è davanti a noi nel tempo futuro. E dobbiamo farlo presto.

Il documentario “Ultima chiamata”  racconta il nostro presente e il nostro futuro, visto dalla prospettiva di una razionalità umanitaria. L’umanitarismo scientifico che animò il gruppo di scienziati del MIT (promosso dal Club di Roma e finanziato dalla fondazione Volkswagen), allorquando pubblicò nel lontano 1972 le previsioni sul futuro del mondo nel notissimo e dibattutissimo libro “I limiti dello sviluppo”. Il documentario oltre ad illustrare alcuni capisaldi di quella iniziativa attraverso la voce diretta dei suoi autori a 40 anni di distanza, si sofferma anche sul clima culturale di quel gruppo, cosa che dal punto di vista di uno psicologo di gruppo come me risulta estremamente interessante.

Volendo fare una estrema sintesi di questo documentario, emerge il tentativo degli scienziati del MIT di mettere assieme breve, medio e lungo termine. Un’impresa mai tentata prima che richiedeva una certa sfrontatezza. Tutte le singole crisi erano, profeticamente, intese come sintomi di un’unica crisi globale per la quale è la stessa sostenibilità planetaria in discussione.

La mente umana è “tarata” per concepire sistemi semplici e non è in grado di proiettarsi né su sistemi complessi, né su dimensioni relazionali molto più estese della famiglia, né su prospettive temporali più ampie della propria vita. E questo limita molto la comprensione di sistemi più complessi.

Jay Forrester, esperto in dinamica di sistemi del MIT incarica un gruppo di giovani scienziati tra cui i prinicipali autori sono: Donella H. Meadows, Dennis L. Meadows, Jørgen Randers e William W. Behrens. Il libro descrive 12 possibili scenari futuri dai peggiori a quelli sostenibili, la sostenibilità è determinata dalle scelte umane. Lo scenario degli scenari riguarda essenzialmente la crescita esponenziale di demografia, economia, consumi e sfruttamento delle risorse in un pianeta fisicamente finito, cioè limitato.

Non ci sarà un adattamento graduale, visti i ritardi sulle decisioni importanti, e sfondata la soglia della sostenibilità ci potrebbe essere una riduzione organizzata, un declino assistito oppure sarà la natura stessa a riportarci nei limiti della sostenibilità.

Nel 1985, il presidente Reagan in un discorso inaugurale, rispondendo proprio a quel rapporto afferma: “non ci sono limiti allo sviluppo e all’espansione umana quando gli uomini sono liberi di seguire i propri sogni”. Riporta così al centro una visione miope, cioè a breve termine, che consente lo sviluppo incontrollato e deregolamentato dell’espansionismo economico, ben presto divenuto il neoliberismo finanziario che ci ha portato all’attuale crisi.

Nel 1992 Bush padre alla conferenza per l’ambiente di Rio dice: “20 anni fa alcuni parlarono dei limiti dello sviluppo, oggi sappiamo che lo sviluppo è il motore del cambiamento ed è amico dell’ambiente”.

Insomma gli appelli documentati degli scienziati sull’andamento insostenibile cadono sistematicamente nel vuoto neutralizzati in genere da una sorta di miope scetticismo alimentato dall’impossibilità di concepire modelli di vita e modelli economici sostenibili alternativi a quelli attuali. Lo scioglimento dei ghiacciai e i vistosi cambiamenti climatici già in parte in atto e quelli che ci attendono nei prossimi decenni (saranno i nostri figli e nipoti ad occuparsene) non sembrano riguardarci e forse solo quando Manahattan sarà sott’acqua potremo globalmente muoverci verso una correzione dei nostri stili di vita, ma forse sarà troppo tardi.

In questo senso, dice Dennis L. Meadows, uno degli autori del rapporto, “un modo per cambiare è smettere di immaginare di raggiungere la sostenibilità spostandosi sulla resilienza, spostandosi cioè da uno sviluppo sostenibile ad uno sviluppo di sopravvivenza. La resilienza è la capacità di assorbire un trauma continuando a svolgere le stesse funzioni”. Ma immaginare di adattarci al peggio è una tragica sopravvalutazione delle possibilità umane. Non dobbiamo rassegnarci a colludere, in buona fede, con l’omeostasi attraverso la spinta ad una normalizzazione e alla resilienza a tutti i costi. Ci sono momenti in cui anche un concetto nobile come quello di resilienza deve quanto meno relativizzarsi e talora lasciare il posto alla necessità di cambiamenti più profondi. Il sistema capitalistico e gli attuali sistemi politici tarati sul pensiero a breve termine (profitto e consenso) appaiono del tutto impossibilitati ad intervenire e auto correggersi sul lungo termine, e di questo sono ben consapevoli anche gli scienziati autori di questi disperati appelli.

Ma qual è il contributo che possono dare le scienze psicologiche al cambiamento dei sistemi umani verso la sostenibilità? Credo che possa essere ampio e decisivo (vedere ad es. le ricerche di Mihaly Csikszentmihalyi e di Tim Kasser ).

La psicologia può senz’altro aiutare a comprendere quei processi decisionali che incidono nelle nostre vite, ma può anche accompagnare a sviluppare consapevolezza e promuovere la tolleranza alla fatica di utilizzare un approccio razionale nelle organizzazioni sociali. Non limitandosi ad accettare la dialettica tra istanze utilitaristiche e istanze comunitarie, ma osando di più e inoltrandosi nel cuore delle pratiche collaborative dimostrando come sia interesse di tutti e quindi di ognuno applicare i principi di razionalità comunitaria legati alla qualità della vita quotidiana, percepibile da ognuno di noi a partire dalla comune esperienza individuale e relazionale.

L’idea quindi che il concetto di sostenibilità appartenga al piano psicologico-sociale nello stesso modo in cui riguarda il clima, l’economia, l’ecologia, significa cogliere radicalmente la circolarità tra i diversi piani della sostenibilità. 
 
Attraverso il costrutto Sostenibilità Psico-sociale le pratiche psicologiche possono approfondire lo studio degli attuali stili di vita, alla luce dello stato di salute dei sistemi ecologici e antropici in cui l’uomo è attualmente “ambientato”. Non si tratta solamente di sviluppare una psicologia del comportamento ecologico e pro-sociale, su cui esistono già numerose ricerche utili e importanti, né di una mera corrispondenza tra esterno e interno, tra dentro e fuori. Si tratta invece di compiere un salto epistemologico espressamente richiesto dalle critiche condizioni del Pianeta e dei sistemi socio-culturali. Una prospettiva interpretativa che rappresenti la condizione umana in maniera più comprensiva, volta al superamento di sterili dicotomie (come mente vs. corpo, interno vs. esterno).

Con il concetto di Sostenibilità Psico-Sociale si può rappresentare un insieme di strumenti volti alla valutazione della qualità di vita, del benessere individuale e sociale,  dei meccanismi interpretativi che permettano di coniugare lo studio dell’ambiente ecologico-economico-culturale e lo studio dell’ambiente psichico e relazionale. Dall’analisi delle relazioni e dei processi di cambiamento possiamo cominciare a comprendere non solo gli indicatori per leggere il presente ed il passato, ma soprattutto, offrire sistemi di pensiero e di azione innovativi, volti a costruire nuovi e migliori stili di vita nel futuro.

Questo il piano di analisi del pianeta. Proviamo ora, con un salto, a scendere sul piano dell’individuo.

Prova ad immaginarti tra 5, 10 o 20 anni. Pensa ad un punto di fuga su un foglio dove si dirigono tutte le linee verso l’orizzonte. Proviamo a disegnarlo questo punto di fuga. Questo è un genere di frasi che mi capita di ripetere durante le mie sedute di psicoterapia, specie con pazienti o situazioni che appaiono arenate, ferme, predestinate, cronicizzate. Sono domande che durante un percorso psicoterapeutico necessitano talora di essere poste più e più volte dal momento che per taluni, all’inizio, è davvero inimmaginabile anche solo porsele.

Svincolarsi dal giogo oppressivo di un presente incombente e fonte di malessere, di una vita collassata sull’oggi e al massimo sul domani; smarcarsi dal ricatto dell’istantaneo, mettersi in cammino su un sentiero impervio e lungo. La psiche s’incammina quando trova una strada davanti. Ma non sempre questa strada si offre allo sguardo. Più spesso la mente rimane nel limbo.

Una mente sospesa nel vuoto del limbo e assediata dal sintomo o da un’angoscia sorda senza nome può al massimo limitarsi a sopravvivere e a ripetere le stesse giornate sempre uguali e alla fine crolla.

La mente ha bisogno di gradini vicini dove appoggiarsi, ma anche di stelle nel cielo a cui guardare per orientarsi, di pietre nel centro torrente sulle quali saltare per attraversarlo, ma anche della visione della fine del viaggio. Agganci vicini e agganci lontani, persino lontanissimi. Una mente disancorata e priva di punti di fuga, prossimi e remoti, è una mente fragile, ricattabile, in balia degli eventi, una mente intrascendibile.

Non bisogna confondere questa vitale ricollocazione della mente nel flusso temporale tra passato, presente e futuro prossimo e remoto, come un voler creare inattendibili aspettative o inabitabili utopie. Non è questo. È solo un ristabilimento di un linearità.

Prima citavo Jørgen Randers, co-autore tra gli altri dell’imponente lavoro del MIT sui Limiti dello sviluppo, nel 1972 e più recentemente dell’aggiornamento dal titolo 2052. Scenari globali per i prossimi quarant’anni. Rapporto al Club di Roma, 2013.

Randers dice oggi qualcosa che risulta piuttosto gravoso nella sua evidenza. Mentre tutte le previsioni ci danno come prossime (decenni) alcune catastrofi ambientali annunciate a causa del fatale andamento inflattivo di tutti i sistemi planetari a causa dell’impatto del genere umano sul pianeta (antropocene), l’attuale governance mondiale si trova nell’impossibilità di modificare questi andamenti dissipativi e autodistruttivi in quanto totalmente ripiegata su visioni a breve termine ed incapace a allungare lo sguardo oltre la punta del proprio turgido naso. Da un lato il sistema economico-finanziario mira al profitto immediato in una cornice che descritta dal punto di vista psicopatologico sembra sempre più migrare dal “semplice” narcisismo trionfante e utilitaristico verso una fenomenologia francamente psicopatica, non solo priva di empatia ma anche di rimorsi morali. Parallelamente e congiuntamente il sistema politico delle democrazie e delle oligarchie dominanti mira a ottenere il consenso a breve termine per le prossime elezioni e a conservare le rendite di posizione di potere consolidate raggiunte. La sensazione che tutto si tenga ricorda tanto l’orchestrina del Titanic che continua a suonare mentre la nave cola a picco.

Non è possibile quindi alcuna programmazione a lungo termine né a livello locale, né tanto meno a livello globale per la salute del pianeta e per una riduzione dell’impatto consumistico. Programmazione a lungo termine divenuta del resto inderogabile in vista degli sviluppi involutivi dei prossimi decenni, che diventeranno i giganteschi problemi quotidiani delle 1-2 generazioni prossime. I nostri figli e nipoti, in sostanza, avranno a che fare con grane di portata apocalittica da sbrigare, ma poiché siamo stati programmati a muoverci e pensare su sistemi a corto raggio temporale, non riusciamo in nessun modo a proiettarci nei loro panni. In parole povere: fatti loro.

Questa organizzazione economica e politica totalitaria appare oggi paradigma della vita mentale, modello ispiratore precisamente speculare alla fenomenologia del “fiato corto” degli individui che ci impone di abitare archi temporali brevissimi, al massimo l’arco vitale, e reti relazionali di stretta prossimità, famiglia e poche relazioni amicali. Una sorta di miopia egocentrica o se vogliamo una bolla prossemica, estensione di un sé coartato, solo poco più ampia e corazzata dentro la quale ci rifugiamo per sopravvivere, aiutati da mille dispositivi di isolamento, coazione e chiusura. Miopi talpe costrette a scavare cunicoli sotterranei e ad adattarsi a luoghi bui. Ma mentre questa miopia poteva avere senso su strutture antropologiche del passato, laddove le comunità erano meno mobili e in contatto tra di loro, oggi la condivisione globale dei destini rende assolutamente obsoleto questo modo di procedere ed obbliga ad un rapido cambiamento di paradigma.

Ci ritroviamo quindi come operatori della psiche ad affrontare assieme a tutti gli altri scienziati e soggetti consapevoli e di buona volontà, una questione epocale di assoluta rilevanza e responsabilità che personalmente tradurrei come il contributo che la coscienza individuale e collettiva può portare nella comprensione e cambiamento di sistemi complessi.

Mi spiego meglio. Gli analisti dei sistemi complessi sanno bene che uno dei principali fattori e punti di leva di cambiamento di un sistema complesso e di applicazione di contromisure (secondo alcuni il principale) è proprio la “coscienza” di chi osserva, intesa qui come consapevolezza profonda e unitaria, una sorta di insight, che consente salti di qualità. Non solo quindi conoscenza degli elementi, variabili, caratteristiche, connessioni, cambiamenti, fluttuazioni, elementi caotici e imprevedibili, ma precisamente cambiamento della coscienza dell’osservatore.

I processi di consapevolezza che informano la coscienza di legami complessi avvengono attraverso la possibilità di connettere all’unisono e in un quadro nuovo dati precedentemente scollegati e apparentemente non attinenti alla propria realtà sensibile. Questi processi hanno ha che fare più con l’esperienza quotidiana che con una comprensione intellettuale, seppure occorra ad un certo punto elevarsi ad una visione del pensiero etico di tipo universalistico oltre che ad una sintesi complessiva personale dei fattori interagenti in corso.

Il compito delle scienze e delle pratiche psicologiche diventa prevalente nell’indicare i percorsi della coscienza, di allargare e proiettare in avanti le prospettive della mente e delle generazioni. Nel disegnare insomma quel famoso punto di fuga sull’orizzonte sul foglio di carta.

Questo articolo è una sintesi rielaborata dei seguenti articoli: D’Elia Luigi, Piccola metafisica delle catastrofi  su ilfattoquotidiano.it, 2011/2; D’Elia Luigi,Ultima chiamata. Quando persino la resilienza è nemica della sostenibilità. PSYCHIATRY ON LINE ITALIA, 2014/4; D’Elia Luigi, Vivere a corto raggio. Quale rapporto tra mente e destini del pianeta? PSYCHIATRY ON LINE ITALIA, 2014/5

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