Vi racconto una vicenda paradigmatica dei nostri tempi. È la storia di un manager di una multinazionale che in preda ad una forte ansia, appena agli esordi, si reca da uno psicologo (nella fattispecie il sottoscritto): 5 sedute e l’ansia è sparita. Forse non c’era, forse si era sbagliato? No, l’ansia c’era eccome ed aveva tutte le caratteristiche di un’ansia panicosa, ma per fortuna perdurava, al momento dell’arrivo dallo psicologo, da soli 10 giorni.
Come è possibile, vi domanderete, una regressione così rapida del sintomo che spesso tende a permanere e strutturarsi?
Semplice, il manager in questione ha preso sul serio il problema, ha rapidamente rinegoziato alcuni aspetti della sua vita, in particolare quella lavorativa, ha compreso la natura benigna (seppure dolorosa) dei suoi sintomi e soprattutto ne ha compreso senso e avvertimento.
L’immagine che il signor Gianni – nome di fantasia – riferiva in seduta nel corso dei primi incontri, era quella di un viaggio in autostrada divenuto quasi impossibile: “l’autostrada ti costringe ad andare veloce, a uscire dove decide lei, a fermarti solo sulle corsie di emergenza o autogrill. Diciamo che all’autostrada preferisco le stradine provinciali , ti fermi ed esci quando vuoi, ti godi il panorama, puoi tornare indietro”.
Il signor Gianni non è in realtà un manager, ma un inventore, egli era stato promosso a manager di questa importante azienda multinazionale perché si era distinto per la sua creatività e inventiva in tutt’altro settore nel quale aveva contribuito con le proprie invenzioni a risolvere molte questioni pratiche. Per cui, nelle alte sfere avevano pensato bene, vista la sua efficienza, produttività e attaccamento aziendale, di affidargli un compito di coordinamento ad alto livello per dare slancio ad un determinato settore.
Ma fare il manager significa lavorare per macro obiettivi e soprattutto significa non avere più orari né autonomia. Significa in sostanza consegnare la tua vita, mani e piedi, al lavoro come unica fonte di senso e di identità, non avere altri interessi, non avere tempo per sé, per la famiglia, per gli amici, per nulla altro che non sia il lavoro. Essere manager significa consentire al lavoro di colonizzare, molto più di quanto si possa immaginare, ogni piega della tua esistenza e vivere per il progresso, il successo e la realizzazione degli obiettivi aziendali. La tua realizzazione coincide con l’aumento del fatturato aziendale.
Il signor Gianni ha avuto, ad un certo punto, già dalle prime due sedute, una chiara visione d’insieme e ha perfettamente compreso di trovarsi nella più grossa trappola che mai poteva immaginare, una trappola da lui stesso costruita, come se un ipotetico carceriere gli avesse consegnato le chiavi della sua cella e provvedesse egli stesso, da prigioniero, a chiudere con tre mandate la serratura riconsegnando poi le chiavi al suo carceriere.
Nelle due sedute successive, il signor Gianni rimette le cose al loro posto: telefona al suo diretto responsabile e in quattro e quattro otto rinegozia i termini del suo ingaggio in azienda definendo la chiusura della sua attuale mansione di lì a poco e concordando un rapido ritorno alla sua precedente attività. Nessuna spiegazione particolare o personale se non la decisione già presa, prendere o lasciare. Non si tratta nemmeno di un demansionamento, ma di un semplice spostamento a pari condizioni. Ma per Gianni anche un eventuale demansionamento era ammissibile a condizione di porre termine a questa ansia.
Effetto immediato: a conferma dell’esattezza dell’ipotesi di lavoro iniziale che supponeva l’intrappolamento nella appiccicosa rete lavorativa, l’ansia prima decresce, poi nell’arco di un mese scompare del tutto. Il signor Gianni, soddisfatto, dopo solo 5 sedute in tutto (e una modestissima spesa), chiede di interrompere il lavoro con me.
Certo, non tutti hanno la possibilità negoziale che il signor Gianni ha dimostrato di avere con la propria azienda, anzi, la maggior parte di coloro assediati dal proprio lavoro devono sudare le sette camicie per ottenere migliori condizioni lavorative, o il part-time, o spostamenti, o altro genere di cambiamenti migliorativi, che quasi mai ottengono. Per altri ancora è addirittura un miraggio immaginare di poterlo svolgere un lavoro, figuriamoci poterlo negoziare.
La storia di Gianni evidenzia da un lato l’eccessiva rilevanza che la vita lavorativa ha sulla nostra salute psicologica e sulla definizione della nostra identità, dall’altro lato mostra la possibilità, ancora intatta per ciascuno di noi, di incidere sulla sfera lavorativa, che spesso viene vissuta come un’area ineluttabile e immodificabile.
I nostri attuali stili di vita determinano infatti uno strano fenomeno di incapsulamento, di intrappolamento in abitudini, consuetudini, routine, che riguardano soprattutto i tempi e i modi lavorativi, vissuti fatalisticamente, e quindi passivamente, come immodificabili e ingovernabili.
A quanto pare questa storia ci dimostra il contrario, che non sempre va a finire nello stesso modo e che ampi margini di revisione e rinegoziazione con la sfera lavorativa sono ancora possibili, naturalmente a partire dalla possibilità per ciascuno di noi di immaginare e realizzare una reale e vantaggiosa semplificazione volontaria della propria vita (nel mondo anglosassone la parola che indica questo concetto è downshifting), una concreta ri-assegnazione interna delle priorità e della scala di valori della propria vita. Una riconfigurazione delle condizioni di vita che, come prova questa storia, ha persino il potere di destrutturare i sintomi psicologici, di togliere immediatamente ossigeno all’ambiente di coltura del malessere psichico e di smontare il sintomo.
Ma quanti di noi possono testimoniare storie di semplificazione e “liberazione” simili a questa del signor Gianni? E quanti di noi viceversa vivono una soggezione verso le proprie consuetudini lavorative?
Certo parlare di negoziazione con le logiche del mondo lavorativo proprio oggi nel mentre si assottigliano sempre più le garanzie lavorative e mentre la temporalità lavorativa ha prima frammentato e poi di fatto fagocitato l’esistenza di molti nostri contemporanei rendendo loro la vita più incerta e insicura e sottraendo all’esistenza stabilità e continuità, appare quanto meno in controtendenza se non esplicitamente dissonante (Vedi a tal proposito: Lo psicologo, il mercato del lavoro e la frammentazione dell’identità). Ma, si sa, ciò che governa una buona vita da un punto di vista psicologico non sempre (direi quasi mai) coincide con le principali regole di vita di una determinata fase storica, per cui affermare il semplice buon senso o stare dalla parte della buona vita, come dicevo in prefazione, diventa di fatto un atto rivoluzionario nella sua linearità e semplicità.
Tratto da: Luigi D’Elia Alienazioni Compiacenti, star bene fa male alla società, 2015