Gli effetti estranianti tipici degli ultimi decenni della nostra epoca caratterizzata da un’accelerazione della storia, hanno una loro incubazione genealogica nello scorso secolo. Mi soffermo ora su alcune particolarità che definirei fondative della nostra epoca storica e che a mio parere determinano intrinsecamente fenomeni dispercettivi, intesi qui in un’accezione estesa, di valutazioni infondate, distorsioni, basate su una sorta di effetto di campo culturale. L’idea che lo zeitgeist di un’epoca possa produrre visioni collettive particolarmente orientate e parziali non è affatto nuova: basti guardare a quanto accaduto qui in Europa negli anni ’20 e ’30 dello scorso secolo e studiare a fondo il processo di nazificazione della Germania per toccare con mano come lo spirito del tempo abbia potuto costruire visioni altamente distorte dell’umanità stessa in ogni individuo molto al di qua della sua buona fede.
Per questo, in un articolo dal nome “Dispercezioni” comparso su “Corpo, Riflessione, Immagine” (a cura di Simonetta Putti e Ferdinando Testa. Alpes Italia Editore, Roma, 2011) e da cui estraggo questo paragrafo, tentavo di delineare un ideale itinerario culturale di studiosi-osservatori della contemporaneità i quali, ponendosi sul confine tra era moderna e post-moderna, erano riusciti meglio di altri (a mio arbitrario parere) a delineare alcuni fenomeni particolarmente caratterizzanti l’epoca attuale.
È proprio la loro posizione di confine quella privilegiata (tutti nati tra le due guerre e hanno vissuto la loro giovinezza nel secondo dopoguerra), quella che consente di osservare il passaggio da uno stato delle cose ad un altro. E ciò avviene durante tutto il XX secolo, specie la seconda metà, a cavallo della seconda guerra mondiale, la guerra fredda e la nascita del capitalismo finanziario e iperconsumistico.
Questi osservatori erano infatti alquanto turbati dai cambiamenti in atto sotto i loro occhi: le categorie del pensiero e dell’umano consesso erano vistosamente in crisi. Non era più possibile distinguere il vero dal falso, e nemmeno il vero dal verosimile. I legami sociali erano altrettanto vistosamente condizionati dai nuovi rapporti di produzione e di scambio che la nuova ideologia economico-politica imponeva, il tutto nella direzione dello sfilacciamento dei legami sociali e nel trionfo, come ci indica Foucault, dell’interesse individuale.
L’intero profilo della società, delle sue abitudini fin dentro il mondo intrapsichico degli individui, diventavano rapidamente e sotto i loro occhi di una natura diversa, altra cosa, irriconoscibili.
Immaginiamoci dunque la sensazione di un mondo che prende un percorso in discesa e veloce che nessuno sa dove conduce. Credo che sia stato questo il vissuto di quell’epoca che spingeva questi autori, indubbiamente sensibili e geniali, ad un urgente tentativo di comprensione delle coordinate e della cause principali di tali mutamenti, nel tentativo di un ri-orientamento.
Innanzitutto Guy Debord, 1931-1994, (La società dello spettacolo, 1967), vero e proprio profeta dell’era ipermoderna.
Egli sostiene che nella società ipermoderna l’illusione è la realtà. Merce, Verità e costruzione sociale si sono sublimati nello Spettacolo.
Dice Guy Debord: “Lo spettacolo è il momento in cui la merce è pervenuta all’occupazione totale della vita sociale” [§ 42], lo stadio più avanzato della società occidentale, quello in cui i processi simbolici dei nuovi stili di vita e l’ideologia-non-ideologia neoliberista si sono totalmente impadroniti, senza colpo ferire, della psiche collettiva e individuale.
Ed ancora: “tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione” [§ 1]. L’immagine spettacolarizzata si separa dalla vita, ci spiega Debord e “lo spettacolo in generale, come inversione concreta della vita, è il movimento autonomo del non-vivente” [§ 2]. Si tratta di una vera e propria ri-programmazione dei codici sorgenti con i quali si stabiliscono i rapporti sociali, continua inquietantemente questo testo: “lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra persone, mediato da immagini” [§ 4] Lo spettacolo “non dice nulla di più che «ciò che appare è buono, ciò che è buono appare»” [§ 12].
Gli esiti di tale ri-programmazione sono globali e pervasivi. È come la discesa inesorabile dentro matrix: “là dove il mondo reale si cambia in semplici immagini, le semplici immagini diventano degli esseri reali, e le motivazioni efficienti di un comportamento ipnotico” [§ 18] Il prodotto è una forma di alienazione altrettanto pervasiva: “più (lo spettatore) contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la propria esistenza e il proprio desiderio” [§ 30].
A seguire Jean Baudrillard, 1929-2007.
La puntuale descrizione fenomenologica del “Sistema degli oggetti” già consumistici di Jean Baudrillard del 1968 ci rende la misura di un disagio piuttosto tangibile rispetto alle epoche precedenti dove gli oggetti conservavano nella vita degli individui ancora un prevalente posto funzionale e non ancora totalmente simbolizzato-gadgettistico.
“Il consumo, se mai ha un senso, è un’attività di manipolazione sistematica dei segni.[…] il consumo è una prassi idealista totale che non ha più nulla a che fare (al di là di un certo limite) con la soddisfazione dei bisogni né col principio di realtà.[…]”.
Nell’era postmoderna è il simulacro che domina la scena: “il simulare inficia la differenza tra vero e falso, tra reale e immaginario”. L’informazione mediatica si propone quindi come massima forma di simulazione: “i segni si evolvono, si concatenano e producono se stessi, sovrapponendosi l’uno all’altro in modo che non esiste un punto di riferimento assoluto che possa servir loro da appoggio” (Baudrillard, 1976).
Si viene a creare perciò un’inflazione di segni che non rimandano più ad alcun contenuto se non a se stessi, in una sorta di continua riproduzione cancerogena in cui, come nelle opere del visionario Warhol, l’originale viene disperso e distrutto, e valgono solo le infinite riproduzioni, che assumono in tal modo dignità di “opera”, di realtà.
Ed infine Michel Foucault, 1926-1984.
Quando Michel Foucault nelle sue lezioni al Collège de France del 1979, indica il mercato come unico luogo di veridizione, cioè di costruzione della verità, l’operazione di manipolazione politico-mediatica del secolo scorso aveva già un lungo curriculum alle spalle. Prima con la fondazione della propaganda da parte di Edward Barnays (1928), capostipite di ogni forma di tecnologia di manipolazione delle masse, dalle campagne pubblicitarie alle tecniche del consenso (guardate il documentario della BBC, Il secolo del sé, 2002) a prescindere dal tipo di regime (Goebbels, ad esempio, era un discepolo dichiarato di Barnays). Poi con i diversi passaggi successivi che il liberismo occidentale realizza nei due dopoguerra e in special modo nel secondo fino a giungere alla soglia degli anni ’80.
L’homo oeconomicus, modello d’uomo contemporaneo, fonte e destinatario allo stesso tempo dello stile di vita neoliberale, è imprenditore di se stesso, diventa nelle teorizzazioni di alcuni economisti, come Victor Lebow negli anni ’50 (Leonard Annie, 2007), e poi Gary Becker negli anni ’60-’70, circolarmente protagonista del sistema economico e sociale: “il consumatore, nella misura in cui consuma, è un produttore. E che cosa produce? Produce, molto semplicemente, la propria soddisfazione. Si deve pertanto considerare il consumo come un’attività d’impresa attraverso cui l’individuo, a partire dal capitale di cui dispone, produrrà qualcosa che sarà la propria soddisfazione” (in Foucault, op. cit.).
Il salto concettuale che fa il neoliberismo americano ed il suo way of life è enorme e decisivo (oltre che attualissimo), si annulla la polarità dialettica produzione/consumo, il consumatore assume completamente le logiche della produzione, diventa egli stesso produttore (di felicità, di soddisfazione), si realizza una circolarità che diventa l’ossatura della società: economia e stile di vita trovano qui un’eccellente saldatura, una quadratura del cerchio che esalta il mercato come pietra angolare e fonte di costruzione della verità, di veridizione, appunto. Il cortocircuito produttore-consumatore conduce perciò il consumatore a diventare responsabile dell’andamento stesso della sua economia, psichica e nazionale: la sua ricerca di soddisfazione è la bussola che modella il senso della vita estraendone “verità”. Molto più indottrinante e molto più pervasivo di una nuova religione.
Riassumendo in una sola frase i concetti estratti da questi 3 autori potremmo dire:
il mercato spettacolarizzato, spazio della simulazione e della replicazione, è il nuovo luogo di veridizione della realtà nella attuale società.
La veridizione nella società ipermoderna diventa immediatamente principio percettivo, criterio ordinatore delle contemporanee verità, fruibili e commerciabili, dove però ai misteri delle verità che amano nascondersi si è sostituita la varietà delle merci ben mostrate sui banconi della società dello spettacolo. Tale principio percettivo è però immediatamente anche un principio dispercettivo, condizione necessaria, quella dispercettiva, distorcente, affinché una merce sia inserita in un ciclo continuo di consumo e obsolescenza rapida.
Cosa distingue su un piano neurologico un segnale da un rumore di fondo, un’informazione da uno scarabocchio sul muro? Come procede il cervello dell’anoressica, il cui corpo è diventato merce scaduta e scadente, nel dis-percepirsi come grassa? Cosa accade nel cervello del gambler da videopoker nel sentirsi trascinato e cullato dal senza-tempo della sua ripetizione dis-percependo la propria rovina economica? Come si sviluppa la fenomenologia dispercettiva?
Tratto da: Luigi D’Elia Alienazioni Compiacenti, star bene fa male alla società, 2015