Nel mio lavoro di psicoterapeuta mi capita sempre più spesso di incontrare sia persone singole alle prese con relazioni complicate, sia coppie in crisi che tentano di salvare il salvabile o viceversa di separarsi senza troppi scossoni.
Tutti i dati statistici parlano chiaro: separazioni e divorzi aumentano con una certa inesorabile progressione da circa quarant’anni a questa parte e tutti gli indicatori psicosociali vanno nella stessa direzione: la coppia come architrave del sistema-famiglia è sotto assedio ed è un sottosistema in grandissima crisi identitaria. Personalmente non conosco coppia che non attraversi o non abbia attraversato crisi significative nel corso della propria storia.
La stabilità relativa che caratterizzava le strutture socioantropologiche di coppia e famiglia del recente passato potevano contare su un’organizzazione sociale ed economica completamente diversa e su una suddivisione dei ruoli e funzioni per la quale alle donne era totalmente delegata la funzione di custodia dell’intero sistema all’altissimo prezzo di una evidente subordinazione sociale e politica. Non c’è affatto da essere nostalgici di un’epoca storica che chiedeva un sacrificio insostenibile di più della metà della popolazione, c’è piuttosto da comprendere cosa possiamo fare da oggi in poi per rendere il sistema più stabile senza creare disuguaglianze inaccettabili.
Ma la transizione da una società stabile ma iniqua a una società stabile ed equa rispetto all’organizzazione delle relazioni di coppia e famiglia evidentemente è lunga e laboriosa e prevede passaggi intermedi di grande confusione durante i quali si perdono del tutto le coordinate dell’essere insieme e soprattutto si confondono e si affastellano caoticamente criteri stabilizzatori precedenti con quelli più recenti.
Ad esempio chi si trova all’interno di una coppia stabile e di lunga durata, magari con figli e matrimonio, si accorge ben presto che diversamente dalle generazioni precedenti per le quali il matrimonio e la formazione di una famiglia erano di per sé elementi di indissolubilità (e psicologicamente di sicurezza), non sono più sufficienti le procedure simboliche dell’epoca appena precedente socialmente sovraordinate, ma la “manutenzione” del sistema coppia, ricaduta sotto il dominio dei singoli membri della coppia, s’è maledettamente complessificata in misura tale da essere totalmente fuori controllo.
La coppia non ha più l’ombrello simbolopietico del sociale (e in Italia nemmeno la protezione delle politiche sociali per la famiglia) e una donna che, ad esempio, trascura sessualmente un compagno o marito, o un uomo che pensa più al lavoro o a se stesso che alla sua compagna o moglie, non può più fare appello alla stabilità sociale della propria unione, ma dovrà confrontarsi con una endemica crisi interna che, come sappiamo, in molti casi sfocia in una separazione. Non si può più contare sulla “sopportazione” socialmente garantita e se si vuole stare insieme oggi, la coppia è un cantiere costantemente aperto.
Ciò che rende stabile una coppia oggi è delegato totalmente all’inventiva e alla capacità di manutenzione dei singoli membri della coppia che spesso non solo non immaginano nemmeno lontanamente di doversi occupare di tale manutenzione come di qualcosa di fragile da accudire e sostenere, ma di fronte ai compiti specifici di cui occuparsi al tal fine risultano piuttosto impreparati e impacciati.
Rappresentarsi l’alta frequenza delle situazioni di crisi delle relazioni come un improvviso quanto stupefacente “malfunzionamento” degli individui dentro il sistema-coppia non ci aiuta a comprendere alcuni meccanismi ricorrenti che invece appartengono in tutta evidenza al piano storico-sociale. Questo non significa certo che, se le coppie scoppiano, è tutta “colpa” della società e che gli individui non c’entrano niente (tutt’altro, gli individui fanno come sempre la loro parte in commedia interpretando perfettamente il ruolo a loro assegnato), ma significa che per capire cosa accade dobbiamo interrogare la storia e i suoi rapidi e recentissimi mutamenti, dentro i quali ognuno si muove con la propria personalità.
Prendiamo il frequentissimo caso della progressiva trascuratezza tra i membri della coppia e/o della trascuratezza dei singoli individui con se stessi nel prosieguo di una relazione, fatto questo all’origine di molti disappunti e conflittualità delle coppie contemporanee. Ci si trascura e ci si lascia andare fisicamente e contemporaneamente si diventa progressivamente meno attenti ai bisogni dell’altro come parte dei propri, sia riguardo agli aspetti fisici che emotivi e affettivi, sia rispetto alla sessualità. Ci si ritrova sempre più soli e distanti dall’altra/o senza capire come questo sia avvenuto, anche nel volgere di poco tempo.
I sistemi motivazionali che reggono le fortune e le sfortune delle coppie sono intimamente legati al concetto di “cura” sia riguardo all’altro come oggetto di attenzioni accudenti fisiche ed emotive, sia riguardo al prendersi cura del piacere, proprio ed altrui, relativamente alla sessualità. Accudimento e sessualità sono due tra i pilastri motivazionali principali che, qualora funzionanti, accompagnano le coppie di lungo corso e, viceversa, crollano nelle coppie che si insabbiano strada facendo.
Ma cosa è cambiato sul piano storico-sociale riguardo l’idea del “prendersi cura” nella coppia in modo tale da disorientare in maniera così drammatica le ultime generazioni di coppie?
È cambiato tantissimo, ma forse l’aspetto più spaesante riguarda il senso di responsabilità che gli individui sentono di assumere nei confronti del proprio partner.
Tutti noi proveniamo da famiglie nelle quali, quasi sempre, tale responsabilità dei singoli membri era fortemente mediata da vincoli e codici sociali ben precisi, sottolineati da precise ritualità e anche da vincoli giuridici. La/il coniuge doveva prendersi cura dell’altro/a a prescindere da innumerevoli aspetti più o meno gradevoli del/la proprio/a partner. Era un impegno per la vita, stop. Ci si turava il naso (non solo metaforicamente) e si andava avanti.
Oggi questa responsabilità si è fortemente diluita ed è sempre più diventata “negoziale”, ovverosia, il vincolo di responsabilità reciproca è valido fino a prova contraria, fino a quando tornano i conti. Ma questi conti attengono il più delle volte a valutazioni dell’individuo e dei suoi criteri di soddisfazione e di felicità.
La coppia, questa strana creatura, è però croce e delizia. È sia fonte di massima gioia e riconoscimento che fonte di massima frustrazione e negazione. Si crea perciò un gigantesco conflitto tra criteri di valutazione, vecchi e nuovi, come due software che entrano in conflitto sullo stesso sistema operativo: da un lato il criterio di responsabilità reciproca misurato alla maniera di qualche generazione fa (e sempre presente in noi) secondo vincoli eterni, glissava sugli aspetti frustranti e neganti (erano le donne soprattutto che sopportavano in silenzio) decentrando la coppia a favore della famiglia e i figli; dall’altro lato, il criterio di responsabilità reciproca, misurato alla maniera odierna, sul proprio tornaconto individuale in termini di felicità, fa saltare in ogni momento tutti i conti e crea perciò disorientamento e confusione.
Come detto, non c’è da essere nostalgici. Oggi diamo, giustamente a parer mio, maggiore attenzione al benessere degli individui anche laddove s’ingaggiano in progettualità di coppia e famiglia, ma perdiamo di vista l’aspetto di “trascendenza” (lo dico in senso laico), cioè di decentramento che tale ingaggio comporta laddove la coppia, per sua specificità, punta a diventare famiglia o meno ambiziosamente luogo di progettualità comune.
Le coppie contemporanee fanno ancora molta fatica a integrare gli aspetti della cura di sé e dell’altro con gli aspetti di decentramento legati alla dimensione trascendente dell’essere un’entità plurale. Ma è proprio su questa precisa sfida che si misura la loro durata nel tempo.