“Routine keeps me in line
Helps me pass the time
Concentrates my mind
Helps me to sleep
Steven Wilson, dal brano “Routine”
tratto da “Hand. Cannot. Erase.” 2015
Il compositore e musicista inglese Steven Wilson dedica uno straordinario e malinconico concept album alla inquietante vicenda di Joyce Carol Vincent, giovane donna trasferitasi dalla provincia in un quartiere periferico di Londra e ritrovata morta nel gennaio 2006, dopo quasi 3 anni, e mai cercata in questo enorme lasso di tempo da amici, parenti e vicini di casa, pur presenti. La vicenda fece discutere molto i media inglesi che vi dedicarono un documentario, Dreams of Life, uscito nel 2011.
Quello che stupisce di questa vicenda è che si trattava di una donna ancora giovane, con famigliari e degli amici, che ad un certo punto, trasferitasi nella grande metropoli, decide di scomparire dentro casa e ci riesce talmente bene da essere dimenticata da tutti.
“Estroversa e carina, trentotto anni, aveva alcune sorelle, compagni, ex colleghi ed ex fidanzati. Le persone appartenenti a quelle cerchie sociali apparentemente l’hanno persa di vista. Il monolocale fa parte di un complesso residenziale sopra l’enorme centro commerciale a Wood Green, a nord di Londra, con migliaia di persone che gli brulicano intorno. Ma nessuno dei vicini ha riferito nulla di strano” (Aditya Chakrabortty, The Guardian, lunedì 21. 10. 2013, in ).
Farsi cancellare dalla memoria del prossimo e rendersi invisibili è diventata oggi operazione possibile anche solo rimanendo dentro casa con la tv o il pc acceso, senza la necessità di scomparire in terre lontane. Una vicenda che ci raggiunge direttamente come un pugno nella pancia dicendoci che anche i modi possibili della solitudine e le sue fenomenologie appaiono piuttosto mutati negli ultimi decenni e quando non sono più gli anziani pensionati, soli e senza famiglie attorno, che muoiono in casa lasciandoci accorgere di questo evento solo dall’insopportabile odore che invade i condomini, ma sono giovani donne o giovani uomini che si lasciano spegnere nel fosso senza fine della solitudine e nell’indifferenza, forse ci dice qualcosa dell’organizzazione sociale e del modo in cui il tipo umano, specie metropolitano, è di fatto disaggregato, disconnesso dal suo prossimo.
Da un vertice psicodinamico, lo sappiamo, la vera solitudine è il radicato sentimento di inaccoglienza nella mente dell’altro, di chiunque altro, l’idea cioè di dissolversi con facilità, è l’impermanenza nei pensieri e affetti altrui, sentimento che si matura a seguito di reiterate esperienze di sradicamento affettivo causato da innumerevoli ragioni: traumaticità di varia natura, distacchi familiari, lutti e dispiaceri, trasferimenti. Quando la convinzione di non essere ricordati e pensati dall’altro diventa realtà e si salda ad un effettivo isolamento sociale, ad un atteggiamento depressivo o evitante o eccessivamente timoroso, accompagnato da sentimento di inadeguatezza, ecco che la solitudine diventa un mostro inattaccabile che può portare a conseguenze estreme. Il neuroscienziato John Cacioppo, “che per decenni ha studiato l’isolamento sociale, ha mostrato quanto gravi siano i danni che ne derivano per quanto riguarda i più comuni rischi per la salute. L’inquinamento atmosferico aumenta le probabilità di morte precoce del 5%; l’obesità del 20%. La solitudine fa crescere le probabilità di morte precoce del 45 %” (ibidem).
Wilson fa dire alla “sua” Joyce Carol Vincent, nel testo della canzone citata in apertura, che la routine casalinga le riempie il tempo, la tiene in linea, le permette di concentrarsi, di dormire meglio, ma il canto ripetitivo sottolineato da un delicato arpeggio, diventa ad un certo punto un grido disperato di aiuto, inascoltato. La routine quotidiana sembra inizialmente proteggere e mettere in sicurezza da un sentimento eccessivamente angoscioso, ma il silenzio attorno diventa assordante, insopportabile, schiacciante.
Se penso, ad esempio, alla mia osservazione personale, come quella di un osservatore qualunque, abito da circa due anni in un piccolo condominio di 6 mini appartamenti di un quartiere semiperiferico di Roma, un tempo una borgata povera (Pasolini girò proprio sotto casa mia il suo primo film, Accattone), oggi periferia dignitosa, e se non fosse che la mia dirimpettaia, Gisella (è lì dagli anni 50), vedova arzilla e intraprendente, non mi avesse chiesto di farmi le pulizie a casa e stirare le camicie in cambio di un giusto compenso, e se non fosse che la signora Pinuccia, col suo tignoso cagnolino e la sua stridula parlata abruzzese, non mi bussasse ogni mese per le spese del condominio, io non saprei nulla di nulla di chi abita intorno a me. Al piano terra una ragazza ha preso in affitto poco dopo di me quel rumorosissimo monolocale che affaccia sulla strada, sguscia ad ogni sguardo e saluto, non è mai in compagnia di nessuno. Di fronte alla ragazza solitaria, un appartamento vuoto. Al primo piano, di fronte a Pinuccia, una coppia di sessantenni, obesi e visibilmente depressi e isolati, di cui non so nulla di nulla, anche loro a malapena rispondono al saluto se incrociati per le scale.
Questo scenario in una grande città è la norma, anzi in certe situazioni può essere decisamente peggiore e più alienante di questo, spesso alimentato da condomini affollati e litigiosi.
Anche il lavoro clinico mi fornisce innumerevoli spunti osservativi e storie di solitudine interiore. Penso a Giovanni, 47 enne che abita da solo poco lontano da me, il quale ha progressivamente eroso tutte le relazioni lavorative, amicali e soprattutto famigliari dopo la morte del padre e dopo una delle tante banali liti con la madre che non gli ha mai riconosciuto la sua dignità di persona e di figlio. Penso a Salvo, il quale dopo 5 anni in una comunità terapeutica per una forte depressione, la famiglia che lo vuole riprendere indietro senza alcun progetto, è riuscito ad inventarsi un lavoro come cuoco, ma ormai lontano dalla sua regione di origine, vive come un esiliato con un altro ex paziente schizofrenico (anche egli solo), e non riesce a immaginare di vivere da solo né di avere alcuna vita sociale al di fuori del lavoro che gli assorbe il 99% delle sue energie. Penso a Flavia, bellissima, che vive nel suo appartamento al 6° piano di un comprensorio appena costruito in estrema periferia, faticosamente guadagnato, una vita come figlia e segretaria perfetta, ma una vita sentimentale arida e spenta. Penso a Filippo, impiegato comunale di livello, che a 35 anni riesce a liberarsi dal giogo dispotico di un padre totalitario e paranoico per andare a vivere da solo, ma si rende conto di non avere alcuna competenza sociale né esperienza per avventurarsi nel mondo e si arrocca in una penosa routine di casa e lavoro. Penso a Carolina, con un passato familiare da far tremare i polsi, la quale decide di trasferirsi in una casa di 20 metri quadrati in un paesino dell’interland romano, senza legami e amicizie, dopo che la madre, mentalmente disturbata, decide di trasferirsi in estremo oriente, luogo di origine della sua famiglia, lasciando che la figlia maggiore, sorella di Carolina, la cacci di casa in malo modo.
In tutti questi casi, come in molti altri, non necessariamente presenti nell’agenda di psicoterapeuti, la solitudine è un macigno inamovibile dal petto. Questa tipologia di solitudine, che definirei più come una sorta di esilio forzato, è l’esito di una progressiva spoliazione, interna e esterna, di legami e contesti affettivi-aggregativi. Una desertificazione di territorialità psichiche e sociali, uno spopolamento interiore accompagnato da carestia e da vissuti di immeritevolezza. Quello che personalmente e abbastanza sistematicamente osservo è proprio uno sfaldarsi progressivo e inesorabile dei legami forti famigliari, agevolati spesso da una precedente tendenza delle culture famigliari ad isolarsi di per sé (spesso sono già le famiglie intere, già i genitori, ad essere soli, senza legami precedenti, senza amicizie, come molte storie di lacerazioni precedenti spesso confermano e testimoniano), accompagnato da un’assenza di una cultura aggregativa, sociale, comunitaria che permetta la valorizzazione dei cosiddetti legami deboli (che deboli non sarebbero) e che compensi in qualche misura, se non del tutto, tale matrice famigliare satura tendente all’isolamento, all’autoreferenzialità mesta, alla chiusura a riccio. In genere le ultime generazioni si ritrovano nel solco di tali abitudini famigliari a dissipare e lasciar cadere legami, amicizie, affetti, e nell’impossibilità o incapacità a costruirne di nuovi.
La solitudine aumenta negli ultimi decenni, sta diventando una solitudine di massa, ad esempio “la Gran Bretagna ha visto crescere il numero di persone che vivono sole dal 17% sul totale dei nuclei famigliari nel 1971 al 31 %” (ibidem).
In Italia “Crescono le nuove forme familiari: sono 6 milioni 866 mila i single non vedovi, i monogenitori non vedovi, le coppie non coniugate e le famiglie ricostituite coniugate. Vivono in queste famiglie 12 milioni di persone, il 20% della popolazione, dato quasi raddoppiato rispetto al 1998. I single non vedovi sono soprattutto uomini (55,3%), mentre i monogenitori sono in gran parte donne (86,1%). Le nuove forme familiari sono cresciute per l’aumento di separazioni e divorzi.” (dati ISTAT)
Questi fenomeni si verificano sia a causa del protrarsi dell’età avanzata, ma anche per una tendenza sociale a frammentare i legami precedenti spesso, come appena detto, senza un paracadute che ammortizzi tale tendenza. Cresce anche la povertà legata alla solitudine e con essa il disagio connesso: i single, si sa, sono un target privilegiato della società dei consumi: sono cronicamente insoddisfatti, spendono di più e in maniera compensativa, spesso compulsiva, si rifugiano, annidandosi, nei loro oggetti, abitudini, cibi, manie.
Ci si ritrova perciò ad abitare, come inquilini alienati e pallidi, territori psichici interni, ma anche esterni, svuotati e spopolati accompagnati dal sentimento di sopravvissuti ad una catastrofe e con la consapevolezza che solo rinnovate e reinventate competenze sociali possano essere in grado di rispondere a questi bisogni, così come si presentano, in una cornice del tutto nuova, come in questi ultimi anni.
Tratto da: Luigi D’Elia Alienazioni Compiacenti, star bene fa male alla società, 2015
Articolo molto bello che tocca una tematica non eclatante, che silentemente può portare a conseguenze davvero devastanti non solo per la vita dei singoli individui, ma per la società: prima di arrivare agli estremi patologici di frammentazione riferiti nell’articolo, assistiamo allo sfaldarsi di legami sociali che comporta a sua volta il peggioramento della qualità della vita di tutti noi.
Grazie dell’apprezzamento Lelio, la qualità di vita passa dalla qualità dei legami sociali, questo lo dicono tutte le ricerche psicosociali su felicità e benessere
Bellissima quanto inquietante analisi della società di cui facciamo parte.
Dovrebbe far riflettere un po’ tutti. L’uomo é per sua natura un animale razionale e sociale ma dall’analisi risulta essere altro. Manca l’educazione al rispetto. É per questo che si contribuisce, anche inconsapevolmente, ad allargare il numero degli “invisibili”….
Basterebbe che ciascuno di noi distogliesse lo sguardo dal display del suo i-phone e ricominciasse a guardarsi intorno, a sorridere al prossimo e, perché no, a rivolgere anche un saluto, un semplice “buongiorno” , per far capire a chi lo riceve che siamo contenti dell’incontro. Sarebbe un primo passo verso la riappropriazione della propria umanità, niente di più.
Sono un solitario un po’ per scelta un po’ per necessità dopo L esaurirsi di una storia sentimentale dolorosa e” poco compensativa” capiamoci… ritengo tutto quello scritto nell articolo un po’ mi appartenga, e la cosa pur non spaventandomi diciamo non mi arreca per nulla felicità nonostante un ottima sistemazione abitativa, un lavoro soddisfacente e scelto ( grande fortuna qui).
Concludendo per quanto mi riguarda single nn è così bello, nonostante tu te lo possa nei limiti permettere; la solitudine porta con se sempre qualcosa di “ disagiante” anche se spessissimo non si fa nulla per evitarla