L’argomento di questo lavoro, la scomparsa dell’età adulta, è tema che nasce innanzitutto dall’osservazione clinica a partire dal mio lavoro di psicoterapeuta, ma non solo, è anche osservazione più diffusa e comune intorno a me, nella società. Si tratta di un curioso e relativamente recente fenomeno che riguarda l’attuale mutazione dei cicli vitali, proverò dunque a spiegare cosa ho osservato e ad argomentare ciò che ne penso.
Cominciamo col dire che uno dei migliori criteri per comprendere l’impatto mutageno dei più recenti stili di vita sulla nostra psiche è probabilmente quello di confrontare i cicli di vita degli attuali contemporanei con quelli delle generazioni appena precedenti: genitori e nonni. Cosa faceva e cosa aveva già fatto mio nonno/a o mio padre/madre alla stessa mia età? Come rappresentava se stesso/a e la sua età/condizione in quell’epoca rispetto a me?
E qui scopriremmo subito, non senza un certo imbarazzo, alcune vistose differenze: ad esempio quasi sempre i nostri immediati predecessori a 25-30 anni avevano già compiutamente realizzato tutti gli obiettivi che comunemente oggi attribuiamo ad una persona adulta (famiglia, figli, lavoro, casa, responsabilizzazione, impegno, etc.), evidenza questa che immediatamente ci spiegheremmo, non senza una buona dose di razionalizzazione, con l’argomento dirimente della grande differenza che passa tra la loro epoca e la nostra, a cominciare dall’allungamento dell’aspettativa di vita, passando dalle mutate condizioni socio-lavorative, fino alla maggiore normatività delle società del passato rispetto all’attuale, e così via. È come se parlassimo di epoche molto lontane seppure il tempo storico effettivamente passato è solo di una o due generazioni, cioè quasi nulla. L’imbarazzo, ahinoi, rimane però ancora alto.
Per cicli di vita non s’intende una successione o classificazione meramente anagrafica delle età, ma l’intricato gioco di rappresentazioni che individuo e società svolgono a carico dei compiti, impliciti ed espliciti, inerenti ciascuna fase del ciclo vitale, rappresentazioni che di fatto incidono significativamente su quanto ogni individuo considera coerente, attinente o meno con la propria età. Diciamo che il ciclo vitale recepisce di fatto l’insieme che i codici sociali di volta in volta confezionano per esso e che l’individuo assume ed esegue, interpretandone in qualche modo lo spirito del tempo.
Facciamo un esempio pratico. Se oggi, nei primi decenni del XXI secolo, hai tra i 25 e i 60 anni circa e provi a chiudere gli occhi e a pensare a te stesso, o provi a definire in quale fase del tuo ciclo vitale ti trovi, molto probabilmente non vedrai o troverai un uomo o una donna adulta, ma vedrai e troverai un ragazzo o una ragazza. Certo, se hai 25-35 anni questa percezione di te per quanto opinabile è ormai talmente diffusa da essere diventata del tutto ordinaria, meno scontato è se la tua età è tra i 35 e i 60 anni e la percezione è più o meno la stessa di quando ne avevi 25!
Questa autopercezione non è però una semplice “percezione”, essa si declina in una serie di visioni del mondo e comportamenti che sono coerenti con essa. Quindi stiamo parlando di qualcosa che ha effetti estremamente concreti nella vita di ognuno di noi. È inoltre convalidata sia dalla moda che dagli stili di vita connessi che tendono ad omologare verso una marcata giovanilizzazione le rappresentazioni e le abitudini di tutti (sono adultizzati i bambini e adolescentizzati i signori e le signore di ogni età) e che restituiscono un fermo-immagine appiattito sull’età ritenuta oggi più importante, l’età giovanile.
Sembrerebbe dunque che l’attuale spirito del tempo ammetta quasi esclusivamente le caratteristiche di chi è ragazzo, o comunque giovane e consideri più o meno implicitamente un disvalore le caratteristiche di età più mature. Una vistosa conseguenza di ciò è che tra le età giovanili e la terza età non troviamo più nulla, o meglio troviamo un enorme buco, per cui ci capita con sgomento di osservare che il passaggio tra l’essere ragazzi ed essere vecchi è diventato oramai brusco e discontinuo; ci si guarda ad un certo punto allo specchio e non si può più evitare di osservare i segni dell’età che avanza e all’improvviso si osserva, non senza una certa angoscia e/o tristezza, un signore o una signora di mezza età, irriconoscibile (fatto questo, tra l’altro che giustifica l’uso massiccio del botox per coprire le bugie nascoste). In buona sostanza non esiste più quell’età che fino a pochi decenni fa si collocava grosso modo tra la terza e la sesta decade (20-60) e che era corposamente riempita di contenuti specifici, che oggi risultano evidentemente spogliati, dispersi. Se pensiamo che tale percezione, spostandoci ad epoche limitrofe distanti solo 3-4 decine di anni fa, sarebbe stata assolutamente impensabile, dobbiamo interrogarci su cosa abbia prodotto questa scomparsa e questa imponente differenza di codificazione sulle rappresentazione dei nostri cicli vitali talmente marcata e dissonante rispetto al passato e soprattutto perché.
Ciò che i nostri genitori/nonni da giovanissimi vivevano con sospirata attesa e che addirittura provavano maldestramente ad imitare, almeno nell’aspetto (provando a travestirsi e ad atteggiarsi da adulti), già prima del reale raggiungimento delle attinenti prerogative, e cioè l’età adulta, oggi è vissuto semplicemente come invecchiamento e perdita dei vantaggi/privilegi dell’età giovanile, l’unica che secondo il mantra della nostra epoca valga la pena di essere vissuta. L’età giovanile è divenuta implicitamente la pietra angolare per descrivere quelle successive che vengono quindi definite per sottrazione e non per affermazione. Un signore di 50-60 anni è diventato quindi un “ex ragazzo”, un “non più giovane” o ironicamente diremmo un “diversamente giovane”.
Dobbiamo pensare dunque che a livello di rappresentazione sociale i contenuti reali dell’essere una persona adulta e matura, un uomo o una donna “compiuti”, siano stati scambiati, o modificati, o semplicemente cancellati dall’agenda delle nostre vite da una mano invisibile che si è divertita a cambiare le regole del gioco mentre era in corso la partita.
Le conseguenze di questa sostituzione di regole di ingaggio riguardo i nostri cicli vitali sono innumerevoli e, a mio parere, particolarmente sciagurate. Ma andiamo con ordine.
Breve apologia dell’età adulta
Cosa c’era fino a poco tempo fa dentro l’idea di età adulta o matura che oggi è stato scippato dalla storia ed è diventato svantaggioso o un disvalore per i contemporanei? E da cosa è stato soppiantato?
Proviamo innanzitutto a descrivere a grandi linee ed in positivo le caratteristiche di un individuo adulto utilizzando tre principali direttrici dell’identità personale: identità soggettiva, identità familiare e identità sociale e civica.
Sul piano dell’identità soggettiva, l’adulto si distingue dal ragazzo e ancor più dal bambino in quanto si autopercepisce come autonomo, autodeterminato ed autogestito; egli però tale autonomia non l’ha conquistata sciogliendo dentro di sé gordianamente il nodo della dipendenza relazionale con le proprie figure di attaccamento originarie, casomai le ha trasformate, ha cioè risolto la dialettica dipendenza-indipendenza elaborandone una propria originale soluzione ottimale (ad esempio attraverso il concetto di interdipendenza tra pari). L’adulto è, inoltre, colui che ha tradotto la responsabilità in libertà ed è disposto a pagare il prezzo della propria libertà attraverso la propria responsabilità. Ma non come fardello che grava minaccioso sulla testa delle attuali generazioni di adulti, come comunemente il concetto di responsabilità viene declinato oggi, bensì nel suo significato stretto, etimologico, e cioè quello di poter rispondere (responsus, respòndere = rispondere, essere garanti di ciò che si fa) specialmente a se stessi di ciò che si sente, si pensa, si dice e si fa. L’adulto, diversamente dal ragazzo sente, pensa, dice e fa apertamente e con un certo orgoglio e sicurezza ed anche con una certa autocoscienza/consapevolezza derivante dall’esperienza di vita, facoltà questa necessaria per poter esercitare la propria posizione interiore. Non apprezza perciò la confusione e l’indeterminatezza pur ammettendo il dubbio, ma autorizza dei punti fermi nella propria vita e talora la loro irreversibilità e tratta se stesso senza molta indulgenza.
Sul piano dell’identità familiare l’adulto è colui che, diversamente dal ragazzo (il quale si sente particolarmente legato e talora incollato alle proprie matrici), si vive e si percepisce positivamente, direi trepidantemente, in transito, come punto di passaggio, tra la propria famiglia di origine e la propria nuova famiglia, sia intesa come nuova famiglia effettiva, sia intesa come famiglia relazionale acquisita come nuova rete ristretta di relazioni affettive stabili non familiari. L’adulto è dunque colui che sente la propria realizzazione personale attraverso la fondazione di una propria realtà familiare ed in tal senso vive la propria autodeterminazione come l’esito di tali atti fondativi. Egli dunque si colloca dialetticamente tra il proprio passato familiare ed il proprio futuro attraversando, senza volersi mai sottrarre, tutte le possibili crisi evolutive che la ri-fondazione, talora dolorosa e gravosa, della propria identità familiare comporta.
Sul piano della propria identità sociale e civica, l’adulto, diversamente dal ragazzo, percepisce se stesso come avente una posizione nel mondo, intendendo con questo non già un presunto ruolo pre-scritto (tra l’altro divenuto oggi nell’era del precarismo esistenziale sempre meno plausibile e attendibile), bensì una propria missione o più missioni da svolgere al servizio altrui. Sentirsi al servizio ed utili ad una comunità, ad altri non-familiari, attraverso la propria opera (il proprio lavoro ad esempio, ma non solo), è una delle prerogative dello scambio sociale che caratterizza e distingue la posizione adulta. Ovviamente, nell’ottica dello scambio sociale, l’adulto è colui che prende posizione (prende parola nell’assemblea) e non rimane neutrale rispetto alla realizzazione del bene comune (il bene della propria comunità) che percepisce altrettanto importante e comunque complementare e interconnesso al bene soggettivo e del proprio stretto entourage. L’adulto sente dunque una sua specifica responsabilità all’interno della propria comunità allargata dove esercita il proprio impegno.
Perché è avvenuta la scomparsa dell’età adulta?
Ciò che ho appena descritto in questa pur sintetica (e largamente incompleta) esposizione delle prerogative dell’età adulta, non rappresenta più per i nostri contemporanei (tranne naturalmente alcune eccezioni), alcun privilegio o vantaggio nello scorrere della propria età e delle proprie fasi vitali, tutt’altro. Molteplici le cause di questo nuovo fenomeno che il mondo socio-psy in genere legge come difficoltà di accesso all’età adulta. Ma già questa lettura sottende un implicito: l’esistenza o sopravvivenza di una ipotetica, iperuranica, età adulta (alla quale non si riesce ad accedere appunto) che invece qui supponiamo in qualche misura scomparsa, evaporata, cancellata (casomai andrebbe riformulata, rifondata).
Occorre anche precisare che non è certo la prima volta che nella storia dell’uomo i cicli vitali subiscono delle profonde trasformazioni a causa dei cambiamenti storico-antropologici e per potersi adattare ad essi, specialmente nell’era moderna (negli ultimi 3 secoli), basti pensare a come sia cambiata radicalmente l’infanzia e l’adolescenza dai romanzi di Dickens ad oggi, o solo dall’ultimo dopoguerra, ma il depotenziamento radicale dell’età adulta al quale assistiamo probabilmente legato alle impellenze sociali, forse non ha precedenti.
Una prima ipotesi interlocutoria concernente le cause di questa rapida trasformazione me la fornisce indirettamente Diego Fusaro con il suo importante “Essere senza tempo” dove spiega molto bene come negli ultimi tempi si sia verificata una rapida accelerazione della storia, e con essa una velocizzazione del vissuto del tempo testimoniata dalla fretta che contraddistingue le esistenze di ognuno di noi, assieme ad una acquisizione sempre più profonda e radicata dell’idea del progresso secondo la cui sagittalità collochiamo tutto ciò che conta in un futuro sempre più dislocato e spostato in avanti, vanificando in tal modo fino ad annullare il vissuto del presente.
Ma se tutto ciò che conta avverrà in un domani, per lo più idealizzato ed astratto, che si sposta sempre in avanti e che sfugge continuamente all’esperienza, come si concilia questo con la parabola temporale decrescente dei nostri cicli vitali e con la consapevolezza che nel domani di ciascuno di noi troveremo decadimento, una presumibile lunga vecchiaia e infine la morte? Due vettori – uno della speranza del progresso che si autoperpetua ed un altro della nostra naturale ciclicità esistenziale – che esprimono curvature e forme decisamente divergenti, che viaggiano in direzioni opposte e che giungono infine a cozzare rovinosamente. È evidente che una tale aporia portata alle estreme conseguenze non può che produrre esiti deliranti diffusi e indurre tutti noi a denegare semplicemente non solo il presente, ma anche lo scorrere dei nostri cicli vitali, eternando l’unica fase della nostra vita nella quale per definizione il futuro esprime il massimo di sé e viene esaltato e cioè l’età giovanile.
La fragilità che questa posizione comporta è testimoniata, oltre che dal senso di irrealtà che questa collisione produce, anche dal rimbalzo psicologico (la realtà chiede poi il suo conto, quasi sempre salato) che tutti noi osserviamo nelle nuove generazioni, illuse nel loro eternarsi e derubate di fatto del loro futuro, anche a livello di rappresentazione, vissuto, investimento libidico, e dunque un effetto paradossale per il quale la storia ci crea aspettative particolarmente infondate che poi si pagano con gli interessi in un secondo momento.
Una seconda ipotesi, anch’essa interlocutoria, me la procura il saggio di Benjamin Barber (Barber B. R., Consumati. Da cittadini a clienti. Einaudi, Milano 2010) nel quale l’autore porta numerose prove a favore della tesi di fondo secondo la quale a presiedere a questa sostituzione di prerogative a favore dell’infantilizzazione dell’uomo contemporaneo (occidentale) vi siano dei precisi meccanismi sociali ed economico-politici che di fatto coincidono con le più attuali applicazioni globalizzate delle dottrine neoliberiste di questo tardocapitalismo.
Come in tutte le operazioni di marketing in grande stile ciò che viene venduto non è semplicemente l’ingannevole prodotto giovinezza-sine-die, ma la visione del mondo che quel prodotto veicola, ed ovviamente l’abbondante fumo che lo avvolge e lo indora. In questo caso è il soggetto-consumatore stesso a diventare il prodotto che a sua volta consuma se stesso, una matrice di senso che fa circolare un’ideologia coincidente con l’età giovanile ritenuta, a torto o a ragione, la più felice, quella della formazione, della scoperta, della forma fisica e mentale, dell’infinita possibilità di esistenze.
E dunque una serie di recenti fattori concomitanti di ordine storico-antropologico, economico e psicologico hanno concorso a ridefinire/resettare il soggetto contemporaneo dovendo al contempo svuotare di senso l’età adulta e i contenuti ad essa connessi, così come precedentemente definiti, e sostituendo alle precedenti caratteristiche un ideale performativo di tipo giovanilistico.
In realtà questa ormai lunga e quasi infinita epoca della nostra vita, l’età giovanile, è proprio come tutte le altre portatrice di aspetti positivi e negativi, vantaggi e svantaggi, solo che nel bilancio che i contemporanei svolgono la valutazione dei vantaggi e dei valori intrinseci di questa età è massima e viceversa è debolissima la valutazione degli svantaggi. Allo stesso tempo si tende a considerare poco i vantaggi delle età successive o semplicemente non si conoscono affatto (privando di una prospettica la vita stessa). Senza contare che questo innaturale prolungamento all’infinito delle prerogative giovanili porta con sé una serie di penose conseguenze di cui, altrettanto, si tende a non considerare. Come ad esempio il senso di incompiutezza, o peggio il senso di impotenza o di fallimento, dovuti ad una mancanza cronica di “cittadinanza” e di titolarità ad essere e fare che la condizione giovanile anacronistica porta con sé.
Una sorta di cecità selettiva colpisce i nostri contemporanei i quali nei loro bilanci interni sembrerebbero preferire rimanere giovani, forti e baldanzosi, ma del tutto sospesi nel limbo, piuttosto che autenticamente sicuri di sé. Sembra proprio che abbiamo barattato una libertà (che ha più il sapore inconsistente del limbo) con una sorta di precarietà o incertezza esistenziale, che s’associa e si concatena con la precarizzazione esistenziale rappresentata dal movimento globale della stessa società e di cui le famiglie si fanno inerziali casse di risonanza. In questa nuova scala dei valori interni vengono quotate come positive le condizioni di apertura, di movimento e di possibilità e svalutate le condizioni di rassicurazione, di stabilità di irreversibilità.
Inoltre, il prolungamento della giovinezza e della perenne età formativa dilata a volte all’infinito i transiti tra i cicli vitali e le relative scelte rendendoli di fatto vani.
“Questi momenti di passaggio appaiono oggi sempre più denormativizzati; se un tempo esisteva uno scadenzario sociale che prescriveva chiaramente tempi e modalità delle cambiamento, i percorsi delle transizioni paiono oggi determinati in maniera autonoma dai soggetti coinvolti, che decidono quando e come effettuare il passaggio ad una nuova struttura di vita. L’indebolirsi della componente normativa sembra avere prodotto un deciso ridimensionamento dei ruoli della collettività e ritualità nelle transizioni. Proprio il passaggio all’età adulta costituisce in questo senso forse l’esempio più eloquente” (Marco Farina)
Aggiunge, sempre a tal proposito, il sociologo Alessandro Bosi “stiamo forse assistendo allo sgretolamento di quell’adulto cresciuto e compiuto che le nostre tradizioni classica e moderna ci hanno tramandato. Al suo posto si sta delineando una nuova figura e una nuova epoca di vita, caratterizzata non più dal compimento e dalla staticità, ma anch’essa, come quelle che la precedono, e che la seguono, dalla crescita, l’evoluzione e il cambiamento. Una tappa non più di interruzione, di eterogeneità, di arresto: una tappa omogenea e in continuità rispetto a tutte le altre tappe della vita. Un’età dove si continua a crescere, con tutte le gioie ma anche con tutti i dolori e le fatiche che il crescere comporta.
Qualche pennellata dall’esperienza clinica
La conferma della scomparsa dell’età adulta, seppure il sospetto ce l’avessi già precedentemente, la devo soprattutto ai miei pazienti dai quali imparo continuamente cose nuove e ai quali perciò va tutta la mia gratitudine. La prima che mi “suggerì” questa intuizione è stata Caroline, una ventinovenne asiatica (nata e vissuta in Italia), la quale nel descrivere i propri “gusti” in fatto di uomini, giustificava la preferenza di ragazzi anche molto più giovani di lei riferendo che secondo lei a 30 anni un uomo è già “vecchio”. Inutile provare ad interloquire con questa credenza, era davvero incrollabile. La sensazione trasmessami da Caroline (oltre a quella di farmi sentire un’anticaglia), fu quella della comparsa di un enorme buco dovuto alla difficoltà d’identificare una propria possibile adultità, cioè una propria possibile modalità di transitare nella famiglia di origine, nel lavoro, nelle relazioni, verso un’idea di sé diversa da quella giovanile dei manga, di cui lei era una sfegatata cultrice.
Allo stesso modo, assisto a tutti gli altri racconti di molti altri miei pazienti, sempre vagamente angosciati, soprattutto dal lato femminile, riguardanti i loro partners considerati del tutto immaturi, emotivamente e affettivamente. Scorrendo gli innumerevoli racconti in seduta, troviamo fidanzati e conviventi trenta-quarantenni che utilizzano in loro tempo libero giocando tutto il tempo con la playstation, o che fumano canne per tutto il giorno soggiogati da stili di vita annoiati, compulsivi, vacui, o che spaccano suppellettili in preda a crisi di ira per semplici frustrazioni e difficoltà di comunicazione.
In una vicenda particolarmente emblematica, un tal fidanzato di una paziente comincia ad accusare attacchi panico associati esplicitamente alla presenza della fidanzata, evidentemente in riferimento al procedere verso una maggiore definizione della loro relazione. Attacchi di panico improvvisamente cessati nel momento in cui costui decide di recidere d’un colpo la relazione.
Ed ancora, fughe improvvise dalle relazioni stabili, ma anche inopinati auto-licenziamenti o viceversa inghiottimenti nei gorghi di lavori totalizzanti come fughe da se stessi, improvvisi isolamenti sociali, ed ancora tradimenti seriali, ritorni alle case paterne a più di 40 anni. E così via.
In questo itinerario non incontriamo solo “fidanzati/e” o aspiranti tali, ma troviamo anche giovani adulti, ben più avanti con gli anni, talora mariti e mogli con figli, ben motivati a voler diventare compiutamente uomini e donne i quali però in assenza di un ancoraggio ad una rappresentazione sociale più solida anche essi s’incartano, s’aggrovigliano, si confondono nelle loro fragilità giovanilistiche, nei loro infiniti dubbi sulla esattezza o meno dei loro progetti di vita, sempre più schiantati dalle fatiche di portare avanti le loro indaffaratissime esistenze.
Possiamo fare a meno dell’età adulta?
Al di là di questa aneddotica, colorita in verità da una certa tristezza, occorre valutare con più attenzione l’impatto della scomparsa dell’età adulta, per comprendere meglio le conseguenze che tale trasformazione, unita a tutte le numerose altre della nostra contemporaneità, ha avuto e continua ad avere sulla vita di tutti noi e della società in genere.
Riguardo a ciò mi sono in parte già soffermato nel corso di questo lavoro specie quando ho descritto il senso di irrealtà, di sospensione, di limbo, prodotto dall’espansione illimitata dell’età giovanile, o quando ho accennato alla mancanza di progettualità, di prospettica, di soggettività, di titolarità, di sicurezza, unita ad una precarietà esistenziale e incompiutezza in ogni ambito, a cominciare da quello relazionale-affettivo per finire al sentimento di disimpegno civico, di fatalismo e anestesia politica diffusa (basti pensare alle percentuali di astenuti dal voto sempre maggiori nelle società occidentali progredite).
Già valutando questi macro-fenomeni ci rendiamo conto di quale “polpetta avvelenata” si stia trattando, ma se scendiamo nella vita quotidiana di un giovanotto di 30-60 anni, possiamo valutare ancora meglio gli svantaggi tangibili di questa condizione.
Il primo tra gli svantaggi che mi viene in mente riguarda il protrarsi, talora penoso, della dipendenza sia emotivo-affettiva, sia economica, quindi potremmo dire “esistenziale” a 360°, nei confronti delle famiglie di origine. Spessissimo, e molto più di quanto si possa immaginare, l’economia sia psichica che finanziaria (le due economie finiscono per combaciare) di questa fascia di età è fortemente debitrice, fino alla dipendenza vera e propria, dalle generazioni precedenti. Mi si obietterà che ciò dipende dalle congiunture economico-sociali, dalla disoccupazione crescente, dalla condizione di crisi economica globale, dall’annichilimento del welfare (che ha di fatto creato una sorta di welfare dei nonni come prodotto secondario e invisibile, ma ben tangibile!), etc. Certo, non c’è dubbio che esiste una congiuntura sfavorevole, ma sarebbe fin troppo facile leggere in senso lineare questa serie di fenomenologie: la precarietà economica e la precarietà psicologia giovanilistica. Dobbiamo piuttosto domandarci un po’ più profondamente cosa significhi il protrarsi, anzi l’accentuarsi, di una congiuntura sfavorevole su tutti i piani, sia marco che micro. Da psicologi siamo obbligati a pensare in maniera più complessa e ad immaginare una circolarità oltre che una stratificazione dei fenomeni. In termini di concatenazioni un fenomeno appartiene all’altro e ne condivide, possiamo dire così, il paradigma. Ne condivide cioè i codici sorgenti. Dobbiamo quindi immaginare un paradigma giovanilistico di irrisolutezza, di incompiutezza, di dipendenza, di insoddisfazione, di insicurezza che funziona come codice sorgente su tutti i piani.
Una seconda conseguenza piuttosto svantaggiosa, se vogliamo corollario della prima, riguarda il sentimento di insufficienza e di inconsistenza che consegue alla verifica della mancanza di autonomia. Possiamo descrivere una dinamica circolare tra mancanza di autonomia e senso d’impotenza di proporzioni a volte notevoli. Questo concorrerebbe a spiegare ad esempio l’aumento negli ultimi decenni delle personalità narcisistiche (come compensazione ipertrofica di una carenza strutturale ed incolmabile fino agli eccessi di cui la cronaca purtroppo è sempre più piena dove soprattutto uomini adulti si scoprono del tutto impreparati ad affrontare separazioni, cambiamenti, nella propria vita), così come l’aumento delle patologie sessuali (impotenza anche in età giovanili), ed ancora le patologie depressive, notoriamente in aumento vertiginoso. Non affermo certo che la scomparsa dell’età adulta e del deficit di autonomia connesso sia l’unica causa di tali impennate, ma che esista una concatenazione tra un certo movimento della storia che tende a depotenziare/annullare le prerogative dell’individuo maturo e compiutamente soggettualizzato e queste nuove forme di sofferenza anche sociale non credo vi sia dubbio.
E dunque l’uomo contemporaneo giovanilizzato ed espropriato dell’età adulta occupa la scena della propria vita senza esserne mai protagonista, talora non entrando mai in scena e rimanendo dietro le quinte a sospirare per una presenza mai realizzata, per tutte le occasioni mancate che mai più torneranno. L’irrequietezza che lo caratterizza non è riconducibile all’atteggiamento plastico, adattivo ed esplorativo del modello originario di uomo occidentale (si pensi ad esempio al multiforme Ulisse, come icona e mito fondativo del tipo d’uomo occidentale), questa irrequietezza non ha alle proprie spalle valenze civilizzatrici, tutto al contrario, sembra piuttosto ispirata da modelli di vita dissipativi, consumistici, convulsi, dove l’insoddisfazione è una cifra esistenziale assoluta, cioè non modificabile e non correlabile ad alcunché, in quanto codice necessario al mantenimento dei poteri sociali costituiti. Un’irrequietezza che è il prodotto diretto di una difesa conservatrice della società, che perciò paradossalmente non produce né conoscenza né cambiamento, un’irrequietezza fondata sul vuoto piuttosto che sulla mancanza, come direbbe Recalcati.
Tutto ciò ci fa intuire che la scomparsa dell’età adulta non è propriamente una bella notizia e che è al contrario un segno tangibilissimo di decadenza della nostra civiltà a cui non si riesce a trovare fino a questo momento risposta e rimedio.
Come sarà l’adulto del futuro?
Non potendo all’oggi ancorarci ad un sufficientemente solido nonché condiviso paradigma sociale del tipo umano adulto, ma essendo costretti a riferirci a quelli dell’immediato passato, dobbiamo sperare che prima o poi compaia una nuova rappresentazione dell’adultità che possa sostituire la precedente e ne aggiorni le caratteristiche. Forse sta già avvenendo questo processo sotto i nostri occhi senza che ce ne possiamo ancora accorgere dal momento che è in itinere? Non possiamo dirlo.
Ciò che possiamo augurarci è che l’adulto del futuro si riprenda quanto meno l’orgoglio delle proprie rughe e delle proprie cicatrici frutto delle fatiche specifiche della sua generazione e su di esse possa ricominciare a costruirsi come soggetto dignitoso. Il deficit di soggettualità che colpisce le generazioni dell’era neoliberistica avanzata potrà probabilmente essere compensato nel momento in cui esse riusciranno a riconoscersi per le loro specificità e per le loro particolari narrazioni.
Penso ad esempio alle fatiche talora inenarrabili che alcuni adulti contemporanei fanno per sopravvivere ai movimenti dissolutivi tipici di questa nostra epoca storica, a cominciare dalla fatica di far quadrare i conti, i tempi del lavoro, della famiglia (quando c’è), del tempo libero.
Penso anche alle sfide epocali che già da oggi stanno affrontando e sempre più intensamente affronteranno domani le nuove generazioni di adulti alle prese con la riformulazione delle strutture sociali elementari e complesse attualmente in crisi irreversibile (forme-famiglia, ruoli familiari e intergenerazionali, ospitalità, socialità e legami sociali, rapporto col tempo, con il lavoro, con la polis), ai problemi della convivenza civile che una società multietnica obbliga, alla necessaria riformulazione dei modelli economico-politici che un pianeta limitato impone.
Stiamo dunque parlando di un ventaglio di posizioni che va dal micro a macro, dalla quotidianità alle opinioni politiche, che richiede su ogni piano una nuova, direi urgente, responsabilizzazione di un nuovo soggetto pienamente adulto in grado di prendere parola e pozione, senza troppi tentennamenti. Questo nuovo soggetto va aiutato ad emergere e a costruirsi.